ABOLIAMO LE PROVINCE: CONTINUIAMO!


Malgrado l’obiettivo delle 50.000 firme valide in 6 mesi consecutivi non sia stato raggiunto a causa dell’insufficiente impegno di diversi aderenti all’iniziativa (è possibile comunque ripartire in qualsiasi momento sempre rispettando i 6 mesi),  malgrado tutte le altre onerose iniziative non abbiano sortito ancora cambiamenti concreti, l’impegno del comitato per la riduzione dei costi della politica – abolizione delle province continua.

Continuiamo a tenere desta l’attenzione e a stimolare ogni iniziativa per raggiungere l’obiettivo.  Continuiamo a far sentire la pressione ai politici che persistono nel perseguire interessi propri, diversi da quelli dei cittadini.

Il sito si mantiene come riferimento per aumentare il consenzo fattivo per la abolizione delle province e per partire con nuove iniziative concrete. Facciamo sentire che non dimentichiamo e che non molliamo.

Il coordinatore

Lorenzo Furlan

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L'opinione dei lettori

Le Province istituzioni costitutive della Repubblica essenziali per la
nuova amministrazione locale
di Gian Candido De Martin *
1 – Il paradosso delle proposte di soppressione delle province a fronte del nuovo art.
114 della Costituzione
Le complesse vicende che stanno connotando i tentativi di attuazione della riforma
costituzionale del titolo V, concernente il potenziamento e il riassetto delle autonomie territoriali
che caratterizzano il sistema istituzionale della Repubblica, stanno da tempo mostrando crescenti
incertezze e la difficoltà di applicare con coerenza i principi e gli indirizzi di fondo sanciti con la l.c.
3 del 2001.
Anzi, più il tempo passa senza risultati utili – l’unico provvedimento legislativo meritevole
di attenzione, seppure viziato da vari limiti e restato comunque senza seguito quanto ai suoi
obiettivi principali di ridefinizione delle funzioni degli enti locali, è la legge n. 131/03 –, più
aumentano gli elementi di confusione e di complicazione nelle iniziative e negli interventi
normativi, spesso censurabili anche sul piano metodologico, come nel caso della legge l. n. 42/09
(sul cd. federalismo fiscale), che ha preteso di avviare il processo attuativo del nuovo art. 119 Cost.
senza che fosse previamente chiarificato il quadro delle funzioni amministrative spettanti ai vari
soggetti del sistema. D’altra parte, proliferano in modo del tutto incongruo innovazioni legislative
disorganiche – e spesso erratiche –, legate per lo più ad obiettivi di contenimento dei costi pubblici ,
che appaiono a vario titolo di stampo centralistico o fortemente contraddittorio rispetto alle esigenze
di effettiva responsabilizzazione delle autonomie regionali e locali (basti pensare, da ultimo, alle
norme di carattere ordinamentale su comuni e province contenute nella l. 191/09, la finanziaria per
il 2010, nonché nei decreti legge n. 2 e 78/10, con le rispettive leggi di conversione).
In questo contesto hanno preso consistenza anche una serie di iniziative legislative che
vorrebbero mettere in discussione l’opportunità di mantenere in vita la provincia, la quale sarebbe
una sorta di inutile carrozzone, assai costoso, senza un ruolo effettivo (il riferimento è soprattutto
alle varie proposte legislative volte addirittura a sopprimere in modo sbrigativo le province dal
sistema istituzionale della Repubblica, con puntuali modifiche al Titolo V della Costituzione e agli
statuti delle regioni speciali: v. in particolare gli atti Camera della XVI Legislatura n. 1694,
1836,1989,1990, 2010 e 2264). In sostanza, a fronte di una significativa recente scelta del nuovo
art. 114 Cost. di rafforzamento (anche) delle province, invece di promuovere iniziative per
realizzare (finalmente) il disegno riformatore, ne viene paradossalmente ipotizzata la cancellazione
dall’architettura istituzionale del sistema, senza considerare adeguatamente non solo la loro storia e
il radicamento nelle comunità territoriali, ma anche il ruolo essenziale che questi enti dovrebbero
svolgere in futuro per concretare quella che si può qualificare la via italiana al federalismo: la quale
implica una organica e forte semplificazione istituzionale, imperniata sulla chiarificazione del ruolo
essenzialmente amministrativo di comuni e province (o città metropolitane) rispetto a quello
legislativo e programmatorio delle regioni, nell’ambito di una visione policentrica della Repubblica
volta a valorizzare il più possibile le autonomie territoriali e la ratio della sussidiarietà.
In altre parole, in tale contesto di forte decentramento (politico e amministrativo) del
sistema, deve considerarsi potenzialmente determinante anche il ruolo che può svolgere la “nuova”
provincia, con ciò sottolineando la differenza tra l’idea che della provincia si è andata
progressivamente affermando a partire dalla legge n. 142 del 1990 rispetto all’immagine, dominante
nel periodo precedente, di un ente che, pur essendo collocato alla stregua dei comuni nell’ambito
 Lo scritto, che trae spunto anche dall’intervento al convegno di studio su “Le amministrazioni provinciali” (Padova,
20 novembre 2009), è destinato agli Studi in onore di Franco Modugno.
2
del sistema degli enti locali, aveva in realtà funzioni piuttosto circoscritte e finiva talora anche per
essere sovrapposto o confuso con organi periferici dello Stato operanti in ambito provinciale,
piuttosto che apparire come espressione effettiva di autonomia esponenziale di una collettività
territoriale.
Oggi, invece, la provincia – rafforzata nelle funzioni istituzionali di carattere generale e
ricompresa nell’elenco dei soggetti che costituiscono la Repubblica – è sempre più da considerare
come l’espressione istituzionale di una comunità legata ad un territorio di area vasta, destinata a
rappresentare uno snodo essenziale rispetto sia ai comuni che alla regione. Rispetto ai primi, perché
può certamente svolgere a vario titolo una preziosa funzione tanto di supporto quanto di
coordinamento, soprattutto dei piccoli comuni. Nei confronti della regione, d’altra parte, la
provincia può essere determinante per affrontare finalmente il problema del decentramento dell’ente
regionale, immaginato anche in Costituzione essenzialmente come soggetto di legislazione,
programmazione e coordinamento, più che di amministrazione attiva, e che invece nei fatti ha
alimentato la progressiva creazione di un apparato amministrativo spesso elefantiaco,
burocraticamente simile al modello statale, cui si aggiunge una miriade di enti e società strumentali
regionali, con una forte propensione all’accentramento e alla considerazione degli enti locali più
come soggetti dipendenti, che non dotati di un’autonomia effettiva.
2 – Profili evolutivi dell’ente provincia fino alla riforma costituzionale del 2001
Le origini della provincia – che vanno fatte risalire alla legge Rattazzi n. 3702 del 23 ottobre
1859 – sono certamente, sul piano storico, meno risalenti e, per così dire, meno nobili di quelle del
comune, il quale è un ente nato temporalmente assai prima dello Stato e che mantiene, anche dopo
la nascita e il consolidamento delle istituzioni statuali, un suo ruolo imprescindibile di primo
interlocutore istituzionale delle domande sociali. La provincia è stata invece, almeno inizialmente,
una creazione dello Stato, sulla scia del modello francese del dipartimento, che era stato ivi pensato,
in aggiunta ai comuni, per assicurare che “da qualunque punto del territorio fosse possibile arrivare
al centro dell’amministrazione, ossia al capoluogo, in una giornata di viaggio”: una definizione che
oggi può far sorridere, visto che la mobilità non è più a piedi o a cavallo, ma che sottolinea un dato
di certo non trascurabile neppure oggi (beninteso nelle aree non metropolitane), ossia che a livello
locale vi è un nesso stretto, una sorta di gravitazione, fra il territorio in cui sono disseminati gli enti
di primo livello, i comuni, e il centro urbano più importante, il capoluogo.
Questo legame è frutto di interessi comuni legati alla convivenza e alla esigenza di taluni
servizi pubblici organizzati in un medesimo ambito territoriale locale sovra comunale: ciò ha
progressivamente determinato una forma di identificazione comunitaria di cui la provincia è via via
diventata sempre più la solida espressione istituzionale, con una specifica funzione rappresentativa.
Di qui, in sostanza, lo sviluppo e l’ambiguità di una doppia anima della provincia: non solo
circoscrizione tendenzialmente omogenea di decentramento statale, con a capo inizialmente un
governatore e poi un prefetto, ma sempre più anche – se non anzitutto – corpo locale con propri
organi (inizialmente una deputazione provinciale affiancata ad organi esecutivi di nomina statale).
Si può poi aggiungere che la dimensione territoriale provinciale si è via via caratterizzata pure come
la sede ordinaria a livello locale di una serie di organizzazioni sociali, economiche e politiche, che
hanno considerato questo ambito come quello più appropriato per legare le rispettive funzioni
settoriali (pubbliche o private) alla comunità ivi residente (v. camere di commercio, associazioni
sindacali e industriali, partiti politici e in molti casi anche diocesi).
Nel tempo si è comunque realizzato un progressivo affrancamento della provincia come ente
comunitario dalla stretta correlazione con l’amministrazione statale decentrata, e in particolare con
la prefettura, con una conseguente sua configurazione come ente autarchico rappresentativo della
comunità locale, dotato anche di un presidente elettivo (a partire dalla legislazione crispina, poi
confermata nel testo unico della legge comunale provinciale del 1915): una situazione che, salvo la
parentesi del periodo fascista, si è poi consolidata con il subentro dell’ordinamento repubblicano, il
quale ha costituzionalizzato le province come enti autonomi fin dal 1948, riconoscendo la mappa
3
territoriale di questi enti così come si erano formati nel primo secolo della loro esistenza (quasi un
centinaio, ai quali se ne sono successivamente aggiunti alcuni altri, frutto della istituzione
legislativa di alcune nuove province: ora sono complessivamente 104, con una significativa
analogia numerica con i cento dipartimenti francesi).
Quanto alle funzioni delle province – certo inizialmente assai più circoscritte di quelle dei
comuni, ma comunque non trascurabili anche nel testo unico del 1934 – si può rilevare che
l’orientamento del legislatore le ha legate soprattutto ai campi della viabilità locale (strade
provinciali), della edilizia scolastica (per l’istruzione secondaria) e al settore socio-sanitario e
dell’igiene pubblica. La Costituzione repubblicana ha, d’altra parte, creato fin da subito le premesse
– con il riconoscimento di una seconda istituzione territoriale locale necessaria, accanto ai comuni,
dotata di specifica autonomia – per valorizzare ruolo e compiti delle province sulla base sia di scelte
affidate al legislatore statale (ex artt. 128 e 118, primo comma), sia di potenziali forme di
decentramento ad opera del legislatore regionale che, una volta istituite le regioni, avrebbe dovuto
(ex art. 118, terzo comma) affidare agli enti locali il normale esercizio delle funzioni amministrative
nelle materie di competenza regionale, ripartendole tra i comuni e le province.
Va osservato peraltro in proposito che, una volta avviato concretamente (negli anni settanta)
il processo di attuazione delle regioni ordinarie, ha preso corpo, specie in un primo periodo, una
certa tendenza a mettere in discussione l’ente provincia, da un lato per una propensione che si è fin
da subito radicata a una gestione accentrata delle funzioni amministrative regionali e, dall’altro, per
il fatto che si è sviluppata, specie nella fase iniziale di vita delle regioni, una ricerca – per lo più in
chiave illuministica che legata ad una valutazione delle reali situazioni territoriali comunitarie – di
soluzioni istituzionali alternative alla provincia nell’area (per così dire) intermedia tra comuni e
regioni (v. soprattutto il dibattito sui comprensori, in qualche caso addirittura istituiti da alcune
regioni, anche se poi rapidamente soppressi, stante pure la difficoltà costituzionale di eliminare le
province; v. anche la prospettiva ipotizzata da alcune regioni di sostituire le province con consorzi
di comuni, ossia con enti non direttamente rappresentativi della collettività provinciale).
L’effettività delle scelte costituzionali originarie si è peraltro, almeno per certi versi,
realizzata in modo inequivocabile con la legge n. 142 del 1990, che ha definito – per la prima volta
in modo organico dopo la entrata in vigore della Carta del 1948 – il ruolo istituzionale e le funzioni
delle autonomie locali. In questa legge la provincia è stata definita come un ente di governo di area
vasta, che rappresenta gli interessi generali della relativa comunità territoriale ed è preposta al
coordinamento dello sviluppo locale, come sancito espressamente negli artt. 13 e 14 (ora trasfusi
negli artt. 19 e 20 del TUEL n. 267/2000), che elencano una serie significativa di funzioni proprie,
sia nella programmazione socio-economica e nella pianificazione territoriale, sia sul piano operativo
nei settori della scuola, della viabilità, dei trasporti, dell’ambiente e dello sviluppo locale. Viene
anche riconosciuta alla provincia una funzione di assistenza verso i comuni del territorio specie
quelli più piccoli, sulla base di convenzioni e accordi di programma, mentre altri compiti
dovrebbero essere trasferiti o delegati alla provincia dal legislatore statale o (soprattutto) regionale.
Queste previsioni sono peraltro restate in larga misura sulla carta per la già ricordata
riluttanza delle regioni a decentrare le funzioni amministrative ad esse (provvisoriamente) attribuite
dal decreto n. 616/77. Maggiori risultati concreti ha avuto invece, sul terreno delle funzioni
provinciali, la riforma amministrativa avviata con la legge n. 59 del 1997, in virtù della quale –
applicando anzitutto il principio di sussidiarietà, per la prima volta sancito in modo esplicito
nell’ordinamento italiano – si è prefigurato un radicale decentramento del sistema, con un forte
rafforzamento del ruolo sia dei comuni sia soprattutto delle province. Anche se va rilevato che le
resistenze regionali all’attuazione di queste scelte sono proseguite, talché soltanto una parte delle
funzioni prefigurate per le province (sia dal decreto n. 112/98, sia da quello “sostitutivo” n. 96/99)
sono state effettivamente trasferite agli enti provinciali con le relative risorse finanziarie e
organizzative. Nonostante queste difficoltà e queste resistenze, si può però constatare che – a
seguito anche di talune riforme di settore approvate in quegli anni (a cominciare da quella
concernente i servizi pubblici per l’impiego) – le province sono via via diventate titolari di una
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pluralità di funzioni significative in una serie di campi in cui la dimensione comunale non appare
certamente appropriata.
In conseguenza, anche se è del tutto aperta la questione dell’organica attuazione della
successiva riforma costituzionale del 2001, che dovrebbe potenziare ulteriormente (e in modo
significativo) il ruolo delle province, può dirsi che attualmente le funzioni delle province (anch’esse
dotate dal 1993 di un organo di vertice monocratico direttamente eletto, come i comuni) sono assai
meno esili che in passato: anzi, per molti versi questi enti territoriali sono diventati lo snodo
istituzionale indispensabile soprattutto per i servizi locali a rete e per le funzioni di area vasta, da
abbinare a compiti di programmazione socio-economica e di pianificazione territoriale e
ambientale, che complessivamente qualificano la provincia come un soggetto di specifica e
necessaria valenza istituzionale. Fermo restando, naturalmente, che l’assetto delle funzioni
provinciali non è sempre omogeneo, essendovi situazioni di diverso tipo a seconda dei contesti
regionali considerati, stanti le diverse velocità e propensioni dei legislatori regionali a trasferire o
delegare le funzioni in attuazione e coerenza con le riforme suddette.
Va comunque anche rilevato che lo stato dell’arte delle funzioni già ora riconosciute o
attribuite alle province appare spesso misconosciuto anche da chi prende posizione critica
sull’utilità di questi enti, magari in una prospettiva di malintesa semplificazione del sistema
istituzionale, in cui oltretutto non si tiene conto adeguato delle sorti delle molte funzioni e servizi di
area vasta che dovrebbero essere riallocati in capo ad altri soggetti, ove si volesse procedere alla
soppressione delle province. A parte ovviamente ogni considerazione sull’esigenza di valorizzare il
più possibile e dare effettività al principio autonomistico coniugato con quello di sussidiarietà, che
qualificano in modo specifico la Costituzione repubblicana e richiedono che le funzioni (specie
amministrative) siano decentrate al livello territoriale appropriato in ragione sia delle esigenze dei
cittadini che della possibilità di operare adeguate scelte di governo e di gestione operativa.
3 – La nuova provincia elemento insostituibile di un sistema amministrativo decentrato
e semplificato
Come già osservato, con la novella costituzionale del 2001 si è ulteriormente rafforzato il
quadro del policentrismo autonomistico già sancito nel 1948 su tre livelli istituzionali. In questo
contesto la provincia ha avuto un ulteriore esplicito riconoscimento di pari dignità istituzionale
rispetto ai comuni e alle regioni, che rappresentano – insieme allo Stato – gli altri elementi
costitutivi della Repubblica. Si può aggiungere che questa articolazione del sistema su tre livelli
corrisponde certamente ad una tendenza presente nella quasi totalità dei 27 paesi appartenenti
all’Unione Europea, soprattutto di quelli di dimensione territoriale e demografica simile o analoga a
quella dell’Italia: come dimostrano inequivocabilmente i dati Eurostat aggiornati al 2007 (pubblicati
nel volume di Astrid “Semplificare l’Italia. Stato, Regioni, Enti locali”, a cura di F. Bassanini e L.
Castelli, Firenze 2008).
Con riferimento specifico alla provincia, va rilevato quindi che si tratta di un ente necessario
su tutto il territorio nazionale – salvo la variante delle città metropolitane nelle aree a forte
conurbazione (inizialmente non a caso denominate province metropolitane) – con una propria
autonomia politica normativa, amministrativa e finanziaria, in grado quindi di realizzare un effettivo
governo locale rappresentativo della comunità provinciale. In sostanza, a voler ulteriormente
chiarire il quadro di riferimento che si ricava dalle norme costituzionali del Titolo V – che su questo
piano appaiono certamente poco comparabili col sistema francese, assai meno connotato dal
policentrismo autonomistico presente in quello italiano – si possono evidenziare alcuni punti fermi,
sulla base dei quali dovrebbe essere sviluppato il processo di riassetto istituzionale e amministrativo
volto finalmente ad applicare quanto previsto dalla novella del 2001.
Un primo profilo essenziale riguarda la configurazione della provincia come comunità
territoriale: il che rappresenta un dato oggettivo e non artificiale (come dimostrano anche recenti
ricerche Formez, Istat, Censis), ossia legato ad un substrato socio-politico di appartenenza collettiva
unitaria, con una precisa identità (che si atteggia ovviamente in modo parzialmente diverso nelle
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aree metropolitane). Si tratta di un dato comunitario da “riconoscere” in base anzitutto al principio
fondamentale dell’art. 5 della Costituzione, evitando nel contempo due rischi: da un lato, derive di
stampo localistico, che hanno generato taluni opinabili fenomeni di proliferazione di nuove
province, ma dall’altro anche ipotesi di cosiddetta razionalizzazione dei territori provinciali, che
secondo talune prospettive di ingegneria istituzionale (v. art. 14 ddl sulla Carta delle autonomie,
Atto Camera 3118, peraltro poi stralciato nel testo approvato il 30 giugno 2010, ora atto Senato
2259) dovrebbero essere tutti ripensati (a tavolino) in base a criteri “ottimali” di dimensionamento.
E’ infatti ricorrente la tentazione, più frequente in verità per i comuni, ma di quando in
quando emergente anche per regioni e province, ad immaginare istituzioni territoriali a misura di
quello che si vorrebbe che esse fossero, e non riconoscendo ciò che effettivamente è il dato storicocomunitario:
un approccio fuorviante – incompatibile con la disciplina dell’art. 133 Cost. di
eventuali modifiche territoriali (comunque possibili solo caso per caso, non in via generale) – che
nasce dall’idea di dover uniformare le comunità e i territori per poter applicare lo stesso
ordinamento, e non dalla prospettiva di adeguare eventualmente gli ordinamenti alle diversità delle
comunità territoriali.
Un secondo punto concerne le funzioni della provincia, per le quali deve valere –
analogamente ai comuni – la distinzione costituzionale fra quelle fondamentali, quelle proprie,
quelle ulteriormente attribuite dal legislatore statale o regionale, ferma restando la possibilità di
autoassunzione di funzioni “libere”, ossia non istituzionalmente attribuite ad altro soggetto del
sistema. E’ indispensabile finalmente puntualizzare sul piano legislativo anche le funzioni
provinciali, in una chiave di forte potenziamento coerente con i principi costituzionali sanciti
nell’art. 118, riconoscendo anzitutto le funzioni fondamentali di area vasta, ad opera del legislatore
statale, in attuazione di quanto previsto dalla lett. p) del secondo comma art. 117 Cost. In tal senso
significativi e in larga misura condivisibili appaiono i criteri e le proposte fin qui elaborati, a partire
dalla legge n. 131/03 e dal conseguente schema di decreto legislativo del dicembre 2005, cui ha
fatto seguito – con una impostazione non dissimile in ordine alle funzioni fondamentali – il disegno
di legge n. 1464 della XV legislatura, restato peraltro senza seguito per lo scioglimento anticipato
delle Camere, nonché il già menzionato disegno di legge n. 3118 della XVI legislatura volto a dar
vita alla cd. Carta delle autonomie.
Quest’ultimo, in particolare, che ha completato di recente l’iter legislativo alla Camera –
dopo una sofferta iniziativa governativa (formalizzata con molte modifiche rispetto a precedenti
bozze) e un dibattito parlamentare sbrigativo e non molto perspicuo, fortemente condizionato da
scelte nel frattempo operate in altri testi legislativi riguardanti (anche) gli enti locali – offre un
quadro di riferimento aggiornato in ordine anzitutto alle funzioni fondamentali di comuni e
province, delineate in due distinti elenchi (artt. 2 e 3), nei quali sono commiste, invero in modo
opinabile, funzioni per così dire istituzionali, spettanti in modo analogo sia ai comuni che alle
province, e attribuzioni di carattere materiale, differenziate per le due categorie di enti locali. Per
quanto riguarda specificamente le funzioni materiali di area vasta, prefigurate in capo alla
provincia, si tratta di un complesso di attribuzioni che evidenziano il suo ruolo ineludibile in una
serie di settori assai rilevanti (quali la pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, la
gestione di interventi di difesa del suolo e concernenti il demanio idrico, fluviale e lacuale, la
protezione civile, il risanamento ambientale e i controlli sugli scarichi, lo smaltimento dei rifiuti, la
gestione dei parchi e delle aree protette, i bacini di traffico e i servizi di trasporto pubblico locale, la
viabilità provinciale, l’edilizia e i servizi scolastici per l’istruzione secondaria, la gestione dei
servizi per il lavoro, ed altri ancora). Un elenco lungo – assai più di quello (smilzo) contenuto
“provvisoriamente” nell’art. 21 della l. 42/09 sul federalismo fiscale – , al quale potrebbero
aggiungersi altre funzioni ora regionali, ad esempio in materia di formazione professionale e di
incentivi alle imprese: ciò che rende del tutto evidente la contraddizione con le ipotesi di
soppressione delle province formulate anche da talune forze politiche che hanno contribuito a
definire le funzioni fondamentali di area vasta.
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Si deve poi anche aggiungere che la definizione delle funzioni provinciali come funzioni
imprescindibili di area vasta deve concorrere in modo determinante a razionalizzare e semplificare
l’assetto delle funzioni amministrative locali nel sistema, ancorando effettivamente a livello
provinciale tutte quelle non di carattere comunale, in modo tale da spostare a livello provinciale
gran parte delle funzioni amministrative attualmente allocate (impropriamente) a livello regionale,
in sintonia con quanto previsto dal principio dell’art. 118 Cost. In tal modo verrebbe, da un lato,
valorizzato il ruolo essenzialmente legislativo e programmatorio della regione, che risulta
particolarmente rafforzato dopo la riforma dell’art. 117 Cost., mentre l’amministrazione operativa
verrebbe spostata sui due enti locali territoriali, dall’altro verrebbe stabilito il necessario
presupposto per poter procedere ad un drastico ridimensionamento, se non alla soppressione, di
gran parte dei soggetti settoriali dipendenti o strumentali delle regioni e degli enti locali, che
attualmente complicano, e non poco, il quadro istituzionale (e i costi) dei soggetti che svolgono
funzioni a vario titolo loro affidate dagli enti territoriali.
E’, peraltro, quest’ultima una prospettiva non certo agevole da perseguire, anche per la
oggettiva complessità tecnica degli interventi necessari per operare siffatto sfoltimento, a parte le
molte prevedibili resistenze degli organismi interessati alla semplificazione. Prova ne è anche la
difficoltà ad identificare tali organismi nel ddl sulla Carta delle autonomie, che inizialmente
conteneva un elenco (invero per molti versi opinabile) assai più nutrito di quello che si ritrova nel
testo approvato dalla Camera, nel quale in pratica sono rimasti solo i consorzi tra enti locali (e con
qualche eccezione non marginale), mentre sono pressochè in toto ignorati gli enti e organismi
strumentali creati nel tempo dalle regioni in campi che ora dovrebbero essere di competenza
locale(specie provinciale). Si potrebbe anche aggiungere che un ulteriore rafforzamento del ruolo
delle province potrebbe scaturire dal possibile decentramento dell’amministrazione periferica
statale, da riordinare intorno agli uffici territoriali di governo (finora restati sulla carta), come
previsto da ultimo nell’art. 14 del ddl sulla Carta delle autonomie. Tutto ciò con evidente possibile
semplificazione istituzionale e eliminazione di duplicazioni di competenze, uffici e apparati
serventi.
Altro elemento essenziale del riassetto da operare in attuazione del Titolo V – ma
egualmente di non agevole attuazione – è rappresentato dalla connessione tra la riallocazione delle
funzioni e la dotazione di risorse di cui gli enti autonomi, e specificatamente le province, devono
poter godere per poter esercitare integralmente le funzioni loro attribuite, come prevede la norma
chiave del quarto comma dell’art. 119 Cost. Su questa base si dovrebbe finalmente realizzare il
principio costituzionale dell’autonomia finanziaria di ciascun soggetto territoriale del sistema,
fondata su risorse proprie, compartecipazioni ed eventuali riequilibri perequativi, secondo una
logica che – a parte le norme in merito contenute nel testo “Carta delle autonomie”- la legge delega
sul federalismo fiscale n. 42/09 sembra avere, almeno in parte, accolto concretamente, tra l’altro
abbinando i criteri per l’attuazione dell’art. 119 con una (parziale e invero per certi versi opinabile)
definizione delle funzioni fondamentali degli enti locali e dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali (funzioni inizialmente non previste nella proposta governativa di
legge delega, poi emendata nell’iter parlamentare).
Ulteriore elemento da sottolineare, sempre stante il quadro costituzionale vigente, riguarda
la necessità di configurare gli organi di governo della provincia come direttamente rappresentativi
della comunità locale, e quindi non organi di secondo grado, come invece si è da taluno ipotizzato,
immaginando di far gestire la provincia da organi designati dai consigli comunali o dai sindaci dei
comuni ricompresi. In realtà, la provincia non può essere configurata sulla base di una sorta di
modello associativo dei comuni, ma come un vero e proprio ente autonomo di governo della
comunità provinciale, in grado di effettuare scelte politico-amministrative legate realmente ad una
visione unitaria del territorio provinciale, e non frutto di mere mediazioni tra i (sindaci dei) comuni
ricompresi nella provincia.
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4 – I problemi di effettività del disegno costituzionale sulla nuova provincia
Da quanto si è, pur in estrema sintesi, delineato scaturisce, in sostanza, il volto di una nuova
provincia non certo caratterizzata da un ruolo e una fisionomia marginale nel riassetto del sistema
istituzionale della Repubblica, ma piuttosto necessaria regista dello sviluppo locale e dei servizi a
rete (a fronte di un comune da intendere come punto di riferimento principale per i servizi di base
alla persona), nonché perno essenziale di una prospettiva di possibile semplificazione istituzionale e
di potenziamento complessivo dell’amministrazione locale, in sintonia con i principi costituzionali
che debbono essere applicati per la riallocazione delle funzioni del sistema amministrativo del
nostro Paese. Quindi, una provincia da qualificare come ente strategico per la definizione e
attuazione di politiche locali riguardanti la sostenibilità dello sviluppo socio-economico, l’assetto
territoriale e le infrastrutture, la mobilità e il raccordo tra lavoro e formazione, con un ruolo
istituzionale non surrogabile in campi decisivi per assicurare effettività ai principi costituzionali
sull’autonomia locale. Dunque, altro che soppressione di un ente inutile, a parte ovviamente i casi,
peraltro limitati, di possibile revisione di talune province sottodimensionate di recente istituzione,
frutto principalmente di spinte localistiche (come è avvenuto soprattutto con la proliferazione di
province sarde): ferma restando, ovviamente la difficoltà – innanzitutto in relazione alle previsioni
dell’art. 133 Cost. – di procedere a revisioni o razionalizzazioni territoriali di carattere generale,
prescindendo dalla consultazione delle popolazioni interessate ( ciò che dovrebbe valere, in linea di
principio, anche per le regioni speciali).
A voler a questo punto tirare le fila delle riflessioni svolte sulle esigenze e prospettive di
valorizzazione della nuova provincia nei lavori preparatori che si vanno sviluppando – pur con vari
limiti e chiaroscuri – per dare effettività al disegno costituzionale, è ovviamente da sottolineare
come sia indispensabile una linea di coerenza nell’elaborazione di scelte istituzionali che sono
destinate ad avere una portata generale e una tenuta di sistema, al di là delle contingenti
maggioranze politiche. Di qui la necessità di un orientamento di fondo largamente condiviso sul
ruolo e sulla fisionomia che dovrebbe caratterizzare la nuova provincia, evitando di dare spazio a
scelte a vario titolo contraddittorie, anche in ordine al ruolo dei comuni e delle regioni. Come
sarebbero, da un lato, quelle che, vorrebbero addossare ai comuni tutte le funzioni locali, anche
quelle di area vasta, rendendo così ancor più complicata (o astratta) la possibilità di un loro effettivo
esercizio, in particolare nelle realtà (assai diffuse) dei micro comuni; oppure quelle che, all’opposto,
vorrebbero affidare direttamente alla provincia molte delle funzioni di base che i micro comuni non
sono in grado di gestire (mentre la strada più logica appare quella di razionalizzare la gestione delle
funzioni comunali, prevedendo anche forme obbligatorie di esercizio associato polifunzionale con
unioni dei comuni inferiori ad una determinata soglia). E come sarebbero, per altro verso, quelle che
vorrebbero mantenere un forte ruolo amministrativo-operativo accentrato nelle regioni e negli
organismi strumentali da esse dipendenti, rinunciando al decentramento delle funzioni di area vasta,
magari per radicare a livello provinciale più un primato dei soggetti economici locali (v. camera di
commercio) che di quelli politici, rappresentativi dell’intera collettività locale interessata. Ma si
tratta, come è evidente, di scelte e interventi non facili da concretare, che si sommano alle non
poche difficoltà già in precedenza sottolineate: cosicché può concludersi che è davvero
indispensabile una forte coesione (di sistema) per poter percorrere efficacemente una strada siffatta,
sia a livello statale che regionale.
Un’ultima notazione, su un punto più culturale che istituzionale. La difficoltà di talune
proposte ad adottare scelte che valorizzino effettivamente l’autonomia locale anche sul versante
della nuova provincia si legano probabilmente pure alla persistenza di una visione per così dire
gerarchica delle istituzioni territoriali (statocentrica o regionocentrica), frutto di una cultura della
dipendenza nei rapporti tra i vari livelli istituzionali che è, fra l’altro, in netto contrasto con
l’impostazione policentrica del nuovo art. 114 Cost. Di qui la necessità, oltre che di accelerare una
coerente attuazione del disegno costituzionale volto a rafforzare le responsabilità autonome delle
collettività comunali e provinciali, di accompagnare la riforma con percorsi di adeguamento
culturale e formativo (anche) degli stessi protagonisti delle istituzioni locali (amministratori e
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dirigenti amministrativi), che debbono concorrere a realizzare un obiettivo così impegnativo, sia
stimolando una corretta impostazione del processo riformatore a livello legislativo, sia essendo in
grado di concretare sul piano amministrativo e normativo locale percorsi di autoriforma che siano
espressione di un’autonomia praticata, e non solo rivendicata.

Prontissimo a firmare. Ma mi sembra più importante far capire ai nostri politici quanto l’abolizione di TUTTI i consigli provinciali, sia considerato importante da noi elettori (come la sintesi a una sola camera in parlamento). Da parte mia prendo l’impegno a votare la coalizione che nel prossimo programma elettorale prenderà questi impegni in modo chiaro.

scrivo da Arco nel Trentino. stiamo organizzando una iniziativa che dovrebbe avere notevole risonanza perchè oltre alle Province bisogna diminuire del 50 % i parlamentari.
leggete e fate leggere su facebook la pagina riappropriamoci della politica che è un’altra nostra iniziativa. se mi mandate l’email potremo concordare molte cose. vittorio Agnini

Salve a tutti e complimenti sinceri per l’organizzazione del blog (un po’ – tanto – lo invidio!). Il mio pensiero è diametralmente opposto al vostro eppure ritengo che un confronto possa e debba esserci. Nel nostro blog (mio e di altri colleghi che lavorano in una delle tante Province d’Italia) abbiamo citato questo vostro spazio, come ulteriore fonte per approfondire l’argomento. Per ora è stato inserito solo un link di rinvio, ma avremmo interesse ad ospitare, oltre ai commenti che dovessero arrivare, anche il materiale presente nella vostra sezione “Documentazione” (sia pro, sia e soprattutto contro; ovviamente citando la fonte). In attesa di un cortese riscontro, porgo i più cordiali saluti. Paolo Tognetti – Dipendente dell’Amministrazione provinciale di Ancona

Si sono d’accordo ad eliminare le provice